Ultimamente mi è capitato di rileggere alcuni testi di un lontano compagno di notti insonni, Henrik Ibsen.
Un grande drammaturgo lavora essenzialmente su due piani: il primo è come la sua opera si rapporta alla società, il secondo è come la stessa si rapporta all’arte. E questo duplice aspetto che permette all’opera di persistere nel tempo. Secondo Eugenio Barba ad esempio, durante la Germania nazista, c’erano svariati scrittori di teatro e diversi registi più interessanti e più impegnati politicamente di Bertold Brecht, ma quello che ha permesso a Brecht di sopravvivere a loro è aver sviluppato una nuova forma artistica, il teatro epico che insiste sullo straniamento dell’attore. È questa sua forma d’arte che ha reso la sua opera più stimolante per le generazioni successive, consacrandolo come uno dei più grandi drammaturghi del secolo scorso.
Così Ibsen, che se da un lato prettamente sociale racconta il decadimento della borghesia scandinava dall’altro, quello artistico, opera un intelligente recupero dei grandi temi classici che lo porta così a gettare le basi per il grande teatro drammatico del novecento. Nora ad esempio, la protagonista di “Casa di Bambola”, è a tutti gli effetti una Antigone che ha superato la sua condizione tragica per diventare un eroina drammatica.
Dicevo quindi che ho riletto alcuni suoi testi, soffermandomi maggiormente su “Spettri”, l’opera che più di tutti richiama le atmosfere della grande tragedia greca. Ho pensato anche ad una messa in scena interrogandomi però sul senso etico e formale del testo, cosa che mi ha fatto desistere dal proposito (almeno per ora). In tutta l’opera ritorna il tema della colpa. La colpa dei padri che ricade sui figli, la stessa colpa protagonista dell’Orestea di Eschilo. Nel testo di Ibsen lo spettro del capofamiglia, morto a causa di una vita di eccessi, sembra infestare l’animo della consorte con lo stesso peso delle Erinni che infestavano la dimora degli Argivi. In pratica la signora Alving vessata dalla vita malsana del marito, manda il figlio di appena 7 anni a Parigi, sperando di poterlo sottrarre al destino che incombe sul padre. Il figlio divenuto con gli anni un artista affermato decide però di tornare a vivere presso la casa materna perché, si scopre alla fine, malato della stessa malattia che ha ucciso il padre, la sifilide. Da qui l’impossibilità di mettere in scena il testo senza perderne l’aspetto tragico/estetico che lo portò al successo. Mi spiego. Ibsen usa la sifilide come strumento per veicolare il destino inesorabile che si abbatte sulla casa. La malattia non viene mai espressamente citata ma nel 1881, anno della stesura del testo, la sifilide è considerata la malattia del secolo (al pari dell’Aids nei nostri anni ottanta) e gli spettatori quindi ne sanno riconoscere i sintomi. Poco si sa delle cause, il batterio che ne causa l’esplosione verrà scoperto solo 25 anni dopo, al punto che viene creduta spesso una malattia geneticamente ereditaria, oltre che contagiosa sessualmente. Nel dramma il giovane Osvald, che più volte lascia ad intendere di non aver avuto rapporti sessuali a rischio, ignora che la stessa malattia ha ucciso il padre e che quindi l’ha da lui ereditata, cosa chiara invece alla madre e soprattutto al pubblico. Ecco il punto: gli spettatori che nel 1882 assistevano al dramma, quindi, partecipavano al compimento di un destino che non poteva essere evitato, al pari degli ateniesi nel V secolo a.C. che assistevano all’Orestea. Oggi invece sappiamo che la sifilide non è geneticamente ereditaria (potrebbe trasmetterla la madre e solo per motivi virali ma non è questo il caso) quindi la messa in scena ridurrebbe la figura del giovane Osvald, inizialmente di eroe tragico, ad un mendace frequentatore di prostitute, distruggendo il tema della colpa e quindi il lato estetico dell’opera. Ha senso perciò mettere in scena “Spettri” di Ibsen? La risposta è… non ce l’ho al momento una risposta.