– LEZIONI DI CANTO A MILANO – INFO: J.JESUS@LIBERO.IT TEL. 333.31.35.259

fisso

Ti diranno che non ne vale la pena. Ti diranno che non funzioni. Che sei stonato, irrecuperabilmente. Tu non credere ai loro lamenti, studia e insisti.

DECIDI TU QUELLO CHE È GIUSTO PER TE.

Ciao,

questo è il blog in cui puoi trovare un po’ di notizie su di me, sul mio lavoro. Insegno canto da molti anni ormai, lavoro come cantante, attore e regista teatrale. Per qualsiasi curiosità non esitare a contattarmi.

A presto.

Aumenta la potenza della tua voce!

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#Lezionidicanto #potenza #voce

Spesso mi capita di avere allievi che mi chiedono maggiore potenza vocale. Ecco una tecnica che accompagna in questo percorso. Portate saturazione armonica alla vostra voce! È una tecnica che necessita di tantissima pratica e di molta accortezza, ricordate poi che quella del respiro è la fase più importante di tutte.

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giovanni.gioia82

AGAMENNONE #1

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Oggi comincia la distribuzione del mio nuovo lavoro. Un viaggio durato più di un anno, alla riscoperta di un impulso che giaceva dormiente. Per me il Teatro è, e resterà sempre, un incontro con la propria divinità. Prima di salire sul palco prego Dio, lo ringrazio per avermi messo sulla strada giusta. L’uomo troppo spesso bestemmia Dio quando cade, dando a lui la colpa delle proprie sventure, ma non lo ringrazia mai quando è felice, quando è in fortuna. È questo un atteggiamento poco interessante. Agamennone è un ringraziamento. È un luogo di incontro con il Divino che vibra in ognuno di noi. Agamennone è un nebulosa di sintesi sonora che esplode nelle parole di Eschilo. Ringrazio Dio per avermi fatto incontrare Mario Barzaghi, del Teatro dell’Albero di Milano, che mi ha convinto a lavorare in questa direzione e gliene sarò per sempre grato. Ringrazio Dio per avermi fatto incontrare Mattia Sebastian del Centro Teatro Attivo, che purtroppo non sento più tanto spesso come una volta, che mi ha detto di guardare altrove. Ringrazio Dio per Theodorous Terzopolos che una decina di anni fa, ad Atene, mi ha indirizzato ad un modo nuovo di concepire il rito teatrale. Cominciamo.

 

Un regalo per voi

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Voi che mi leggete… state diventando tanti. La cosa mi lusinga a prescindere dal fatto che condividete o meno quello che scrivo. Tuttavia per ringraziarvi vi riporto un passo da un bellissimo libro, adatto a cantanti, attori, registi, critici e a tutti coloro amano lo spettacolo. Il libro è “Il Punto in Movimento” di Peter Brook, sperando di farvi cosa gradita.

“Il settimo giorno della creazione, vedendo tutti in preda a una noia mortale, Dio esplorò il lungo il largo e i confini della propria vastissima immaginazione per trovare ancora qualcosa da aggiungere alla completezza del creato appena concepito. Superando i suoi stessi illimitati confini, l’esplosione dell’ispirazione lo colse all’improvviso ed egli vide un ulteriore aspetto della realtà: la possibilità che essa aveva di imitare se stessa. E fu così che Dio inventò il teatro. Radunò gli angeli presso di sé e fece loro un annuncio nei seguenti termini, ancora rinvenibili in un antico documento sanscrito:<<Il teatro sarà il campo in cui le persone potranno imparare a capire i sacri misteri dell’universo. E, allo stesso tempo>>, aggiunse con ingannevole noncuranza, <<porterà conforto agli ubriaconi e ai solitari>>.

Alla prossima.

Accademie “riconosciute” o Accademie private.

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È successo una decina di anni fa, avevo momentaneamente accantonato lo studio del canto per concentrarmi su quello della recitazione. Fatto sta che un mio carissimo amico mi invita a vedere uno spettacolo all’accademia presso la quale studia. Sul palco ci sono due giovani attori, diplomati l’anno prima, che mettono in scena uno spettacolo di uno studente della classe di regia. Si spengono le luci, primi scambi di battute, succede un “non so cosa” e la gente comincia a ridere. ORA. Non saprei dirvi con esattezza cosa avesse scatenato la risata. Ricordo solo che mi faccio la stessa domanda per tutto lo spettacolo – “Che c’è da ridere?”. E il pubblico continua, continua a ridere lasciandomi quasi interdetto. Inizio quindi a pensare di non capirci assolutamente nulla, della situazione, del testo e della recitazione in generale. Ma a fine spettacolo tutto si cristallizza: il pubblico è formato da soli amici degli attori, tutti studenti o ex studenti della scuola tra l’altro. Accadde, quella volta, lo stesso meccanismo che avviene di sovente nel teatro amatoriale: il pubblico-ti-conosce e a lui non importa della bravura, del meccanismo dello spettacolo o della storia, partecipa empaticamente all’esperienza dell’amico e la cosa lo diverte. Oggi ne ho maggiore consapevolezza e ci rido, insomma ero lì seduto in quella che veniva spacciata come la migliore scuola di recitazione della città, di quelle “riconosciute”, che ti danno accesso ai bandi importanti, ed era TUTTO-UNO-SCHIFO. Era uno spettacolo brutto, recitato male, diretto peggio, e loro, gli attori, erano veramente cani, cani con il diploma, ma cani. Più volte in seguito sono tornato lì a vedere spettacoli su invito del mio amico, e tutte le volte me ne sono chiesto il senso. Perché scrivo questa cosa? Perché ad oggi incontro ancora ragazzi che credono che frequentare queste scuole sia diverso dal frequentare una qualsiasi scuola privata a tempo pieno. È vero, non tanto tempo fa nelle “accademie riconosciute” potevi incontrarci i veri Maestri. Ma sveglia: l’ultimo vero grande Maestro [R-O-N-C-O-N-I] è morto e i pochi meritevoli che sono rimasti sono troppo bravi per trovare spazio in quei posti. L’importante, quello che fa la differenza oggi, è quanto disciplinato sei nello studio e nelle esperienze che fai a prescindere dalla scuola. Tutto il resto è chiacchiere e perdita di tempo.

Mi dissero che non avrei mai cantato.

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Sul senso scenico di “Spettri” di Henrik Ibsen.

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Ultimamente mi è capitato di rileggere alcuni testi di un lontano compagno di notti insonni, Henrik Ibsen.

Un grande drammaturgo lavora essenzialmente su due piani: il primo è come la sua opera si rapporta alla società, il secondo è come la stessa si rapporta all’arte. E questo duplice aspetto che permette all’opera di persistere nel tempo. Secondo Eugenio Barba ad esempio, durante la Germania nazista, c’erano svariati scrittori di teatro e diversi registi più interessanti e più impegnati politicamente di Bertold Brecht, ma quello che ha permesso a Brecht di sopravvivere a loro è aver sviluppato una nuova forma artistica, il teatro epico che insiste sullo straniamento dell’attore. È questa sua forma d’arte che ha reso la sua opera più stimolante per le generazioni successive, consacrandolo come uno dei più grandi drammaturghi del secolo scorso.

Così Ibsen, che se da un lato prettamente sociale racconta il decadimento della borghesia scandinava dall’altro, quello artistico, opera un intelligente recupero dei grandi temi classici che lo porta così a gettare le basi per il grande teatro drammatico del novecento. Nora ad esempio, la protagonista di  “Casa di Bambola”, è a tutti gli effetti una Antigone che ha superato la sua condizione tragica per diventare un eroina drammatica.

Dicevo quindi che ho riletto alcuni suoi testi, soffermandomi maggiormente su “Spettri”, l’opera che più di tutti richiama le atmosfere della grande tragedia greca. Ho pensato anche ad una messa in scena interrogandomi però sul senso etico e formale del testo, cosa che mi ha fatto desistere dal proposito (almeno per ora). In tutta l’opera ritorna il tema della colpa. La colpa dei padri che ricade sui figli, la stessa colpa protagonista dell’Orestea di Eschilo. Nel testo di Ibsen lo spettro del capofamiglia, morto a causa di una vita di eccessi, sembra infestare l’animo della consorte con lo stesso peso delle Erinni che infestavano la dimora degli Argivi. In pratica la signora Alving vessata dalla vita malsana del marito, manda il figlio di appena 7 anni a Parigi, sperando di poterlo sottrarre al destino che incombe sul padre. Il figlio divenuto con gli anni un artista affermato decide però di tornare a vivere presso la casa materna perché, si scopre alla fine, malato della stessa malattia che ha ucciso il padre, la sifilide. Da qui l’impossibilità di mettere in scena il testo senza perderne l’aspetto tragico/estetico che lo portò al successo. Mi spiego. Ibsen usa la sifilide come strumento per veicolare il destino inesorabile che si abbatte sulla casa. La malattia non viene mai espressamente citata ma nel 1881, anno della stesura del testo, la sifilide è considerata la malattia del secolo (al pari dell’Aids nei nostri anni ottanta) e gli spettatori quindi ne sanno riconoscere i sintomi. Poco si sa delle cause, il batterio che ne causa l’esplosione verrà scoperto solo 25 anni dopo, al punto che viene creduta spesso una malattia geneticamente ereditaria, oltre che contagiosa sessualmente. Nel dramma il giovane Osvald, che più volte lascia ad intendere di non aver avuto rapporti sessuali a rischio, ignora che la stessa malattia ha ucciso il padre e che quindi l’ha da lui ereditata, cosa chiara invece alla madre e soprattutto al pubblico. Ecco il punto: gli spettatori che nel 1882 assistevano al dramma, quindi, partecipavano al compimento di un destino che non poteva essere evitato, al pari degli ateniesi nel V secolo a.C. che assistevano all’Orestea. Oggi invece sappiamo che la sifilide non è geneticamente ereditaria (potrebbe trasmetterla la madre e solo per motivi virali ma non è questo il caso) quindi la messa in scena ridurrebbe la figura del giovane Osvald, inizialmente di eroe tragico, ad un mendace frequentatore di prostitute, distruggendo il tema della colpa e quindi il lato estetico dell’opera. Ha senso perciò mettere in scena “Spettri” di Ibsen? La risposta è… non ce l’ho al momento una risposta.

La voce del Re

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Ho passato l’infanzia ad ascoltare la sua voce, era il cantante preferito di mio padre. Ancora oggi quando lo ascolto penso a quei momenti, nel salone di casa e la musica che usciva dal giradischi. Per me Elvis Presley è un punto di ripartenza, di ricovero, tutte le volte che mi sento in alto mare. La voce di Presley è casa mia.

Sul training teatrale

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Oggi tenterò di fare chiarezza su un aspetto importante che riguarda il teatro contemporaneo: il training. Ne tralascio innanzitutto gli aspetti storici perché facilmente reperibili in un buon libro di storia del teatro. Cosa è il training? Questa pratica dalla quale un buon attore non dovrebbe prescindere e sulla quale si fa spesso molta confusione, a cosa serve? E perché viene professata? Se rivolgessimo a più persone queste stesse domande avremmo tante risposte diverse e spesso contrastanti.  Per alcuni, il training è semplicemente un modo per riscaldarsi il corpo, per altri una pratica per rilassarsi (vedi la scuola americana), altri ancora credono che il training aiuti l’attore a stabilire un contatto con il gruppo, ecc… E in questo marasma di idee proverò a dare il mio punto di vista. Tanto per cominciare la parola “training” vuol dire “allenamento”, il nocciolo della questione è stabilire “a cosa”. Tempo fa una mia collega scrisse su facebook “Si abboffano di training e poi fanno cagare” suscitando la curiosità dei più, me compreso ovviamente. In Italia siamo portati a credere che il training teatrale sia essenzialmente  una combinazione di esercizi fisici, al limite della ginnastica, che porti la qualità della performance dell’attore ad un livello superiore. La cosa in parte è vera, se però l’attore pratica un tipo di teatro in cui le partiture fisiche occupano la parte centrale della performance. L’attore, in questo caso quindi, svilupperà un tipo di training, che miri a rimuovere quei blocchi energetici e fisici che non gli permetteranno altresì di portare a termine i compiti previsti dalla performance. La cosa assurda è che in Italia la quasi-totalità-delle-compagnie (soprattutto quelle indipendenti) opera nel panorama cosiddetto “di parola” e l’attore dovrebbe quindi avere un tipo di training, da praticare (si spera) quotidianamente, incentrato su letture ad alta voce, cambi di ritmo, di intenzione e soprattutto canoro, dove il canto sia lo strumento base per sviscerare le potenzialità della propria voce (preciso comunque che abbraccio la definizione di voce come “parte invisibile del corpo” e quindi un buon training vocale non può prescindere dal lavoro sul corpo). Ovviamente, l’attore medio italiano oggi non sa cantare (e non crede minimamente che la pratica debba rientrare nel suo training) fatica a concepire ritmi sincopati e non riesce ad inserirli nella recitazione ma al contrario fisicamente sa fare molte cose che gli serviranno a poco se fa un teatro di essenzialmente parola (di cui la citazione della collega).

Credo che la definizione di training debba viaggiare su due piani paralleli: il primo è quello riferito all’attore, il secondo riferito alla messa in scena. Parleremo di un “training personale dell’attore” come la raccolta di pratiche fisiche, vocali e cognitive, da esercitare quotidianamente, utili a conoscere il proprio strumento e a perfezionarlo, esattamente come fa un musicista con il suo strumento. Parleremo di “training di scena” invece, come l’esercizio di tecniche personali e collettive utili a sviluppare un determinato linguaggio scenico che prende il nome di “forma teatrale”, naturalmente in questo il regista gioca un ruolo cardine. Il regista prima di iniziare le prove dello spettacolo, in base alla forma teatrale da lui scelta dovrebbe guidare gli attori verso un tipo di training ad essa più affine. Il problema è che oggi i registi non praticano la cosa, vuoi per incompetenza, vuoi per i tempi stretti della produzione teatrale. Soprattutto: la stragrande maggioranza dei registi oggi (almeno quelli che arrivano a Milano) non sanno cosa voglia dire “scegliere una forma teatrale”. Sempre più spesso si assiste ad un’accozzaglia di linguaggi in nome di un eclettismo che cela (e neanche elegantemente) una maldestra incompetenza. Quindi cari colleghi attori, citando un mio vecchio maestro di dizione poetica: non aspettate che venga il Regista a risolvervi il problema, non verrà. A meno ché… non siate voi ad andarlo a cercare. Di bravi maestri ce ne sono, a Milano soprattutto, si nascondono, ma ci sono.